Bisogna avere il coraggio di ammettere la propria sconfitta. La mia protesta per l’uso improprio del termine “sinistra radicale” è stata travolta da una valanga di dichiarazioni, commenti e articoli che preferiscono usare questo termine anziché “sinistra comunista”.
La lingua è una realtà viva, e dopo giorni in cui la “sinistra radicale” è stata al centro della scena, dapprima per la manifestazione di Vicenza, poi per il dibattito sulla politica estera al Senato, devo ammettere che ormai i seguaci di Giordano, Pecoraro e Diliberto si sono appropriati del termine.
Continuo a pensare che storicamente si tratti di appropriazione indebita e mi dispiace per i miei amici del Partito radicale, che continuano a commentare la cosa con una punta di amarezza alla loro radio, ma non possono farci ormai niente. Azzardo il dubbio che se fossero stati meno litigiosi (contro i socialisti nella Rosa nel Pugno, poi nell’incomprensibile conflitto Pannella – Capezzone) forse avrebbero potuto difendere meglio il loro nome sulla scena politica.
Ma può anche darsi che non ci fosse nulla da fare, di fronte al bisogno di una certa sinistra, non riformista ma non più antagonista né marxista, di darsi una bella etichetta: un’etichetta che piace soprattutto ai giovani come dimostra la discussione sul mio blog con mio figlio Pietro, che ha dedicato all’argomento anche una sorta di dissertazione tra il letterario e il matematico.
Aggiungo però, ad uso di Pietro e di quelli come lui, una considerazione politica. Questa “sinistra radicale” è in realtà ben più complicata di quanto vorrebbe far sembrare. Ne fanno parte componenti conservatrici, che si battono per la difesa dei privilegi delle categorie più sindacalizzate, ma anche le frange giovanili giustamente insoddisfatte di un sistema che le condanna a una precarietà perenne. Pacifisti non violenti a ogni costo e gruppi che sarebbero pronti a qualsiasi conflitto pur di dar contro all’America. Gruppi impegnati a ricercare davvero un diverso disegno di crescita che concili la mondializzazione e le esigenze locali e personaggi che nel nome dell’ecologia o del no globalismo sono pronti a bloccare qualsiasi sviluppo e che magari ripropongono barriere protezionistiche a danno dei cittadini più poveri. Esponenti diessini giustamente preoccupati per l’asservimento al Concordato che si delinea nel nuovo programma del Partito democratico, e cattocomunisti che negano la meritocrazia e sognano un egalitarismo da convento, pronti a pagare alla Chiesa qualsiasi prezzo sul piano delle libertà individuali. E si potrebbe continuare.
Una parte di questa “sinistra radicale”, quella più seria, che rifiuta con motivazioni politiche il pallido compromesso storico che si delinea tra Ds e Margherita, potrebbe domani saldarsi con una rinata componente socialista e magari con il laicismo dei Radicali di sinistra. Per me si tratta in realtà della vera sinistra riformista, cioè dell’ala sinistra del riformismo costruttivo.
Un’altra parte della “sinistra radicale” sarà sempre condannata al suo destino: mugugnare, protestare nelle piazze, senza la capacità di una proposta politica che regga un minimo di discussione e tanto meno la prova del governo. Sono “radicali” questi? No, a seconda dei casi si possono definire pasticcioni, populisti, ipocriti, magari idealisti se sono in buona fede. Chiamateli come volete, l’importante è starne alla larga, altrimenti davvero riconsegniamo il Paese a Berlusconi.

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