E’ difficile, per un professore universitario, discutere con un comico. Pietro Ichino ha contestato le affermazioni di Beppe Grillo sulla legge Biagi e lo ha sfidato a un confronto pubblico. Grillo sul suo sito lo ha invitato a incontrarlo a Bologna l’8 settembre, quando il comico e i suoi amici terranno il “vaf… day” contro i politici. La proposta non è particolarmente generosa:

Beppe Grillo started a crusade against precarious jobs in Italy. The problem is real, but the “Biagi law “which the extreme left wants to change is not responsible for it. Only a broader reform of the work laws, including higher indemnities for unemployment, can offer a real change of the situation.

un po’ come se Berlusconi avesse accettasse di confrontarsi con Prodi solo a un raduno di Forza Italia. Ma a parte questa caduta di stile, se anche il dibattito si svolgesse con tutti i crismi della neutralità, non aiuterebbe a fare passi avanti nella comprensione del problema. E’ facile immaginare che Grillo avrebbe la meglio sul piano dello spettacolo, e le sue invettive resterebbero ben impresse nella mente degli spettatori. Ichino avrebbe dalla sua gli argomenti della ragione, che però sono faticosi e difficilmente lascerebbero il segno in chi ha poca voglia di approfondire le questioni.
Perché come spesso accade la verità si sviluppa su due piani. Su quello tecnico giuridico nessuno può contestare l’affermazione di Ichino: contrariamente a quanto afferma Grillo nel suo libro Schiavi moderni, la legge Biagi non ha aumentato, ma semmai ristretto il precariato. L’impulso maggiore alla diffusione dei lavori a termine sotto forma di contratti di collaborazione coordinata e continuativa era arrivato dalla precedente legge Treu, varata nel 1997dal governo di centrosinistra esteso a Rifondazione comunista ed avallata anche da un accordo sindacale. Resta però il fatto politico (e qui Grillo ha ragione) che il precariato in Italia è scandalosamente diffuso; ma chiunque tocca il tema con argomenti non demagogici rischia subito di passare per nemico del popolo.
Il sociologo Luciano Gallino ha cercato di mettere un po’ d’ordine nella questione chiedendosi quanti sono i precari. Se ho capito bene i suoi calcoli, sarebbero circa 6,8 milioni, cioè quasi il 30% della forza lavoro regolare e irregolare. Non capisco perché Gallino consideri tra i precari anche i contratti di lavoro permanenti a tempo parziale: il lavoro part time in certi casi è indicativo di una situazione di precariato (“non ho trovato niente di meglio…”), ma spesso in Europa rappresenta una scelta positiva, soprattutto femminile, di chi vuole conciliare lavoro e famiglia.
Nonostante questa considerazione limitativa rispetto ai conti di Gallino, io continuo a essere convinto che i precari in Italia siano molti, ma molti di più. Mi limito per ora al ragionamento, riservandomi di corredarlo in seguito con le cifre. Chi è precario? Chi non ha certezza di continuità del posto di lavoro e teme che, perdendolo, non avrà certezza di reddito per un tempo sufficiente per trovare un altro posto o per riconvertirsi tramite formazione a un altro impiego. Se si accetta questa definizione, gran parte del mondo del lavoro è precario: lo sono infatti tutti i dipendenti delle piccole imprese private che, anche quando hanno ottenuto contratti a tempo indeterminato, sono esposti al rischio di chiusura senza che le imprese per le quali lavorano possano garantire adeguate indennità in caso di licenziamento.
Ricordiamo infatti (traendo le informazioni aggiornate dal sito dell’Inps) che la cassa integrazione ordinaria riguarda solo i dipendenti delle imprese industriali (e di quelle artigiane limitatamente al settore edile) e che quella straordinaria è limitata alle imprese di maggiore dimensione, oltre 15 dipendenti nell’industria e addirittura 50 in alcuni settori del terziario. Per tutti gli altri lavoratori rimasti senza impiego c’è solo l’indennità di disoccupazione: 40% dell’ultima retribuzione per 180 giorni.
Insomma, a parte i dipendenti pubblici e quelli delle imprese più grandi, tutti gli altri lavoratori sono precari. Se io gestisco una società con dieci dipendenti (anche se con contratti a tempo indeterminato) e domani sono costretto a chiudere, i miei dipendenti si trovano a spasso con una indennità di disoccupazione irrisoria e di breve durata. Sappiamo che la struttura imprenditoriale italiana è basata sulle piccole imprese e che queste hanno una elevata mortalità. E questo non lo chiamate precariato? Se sommiamo ai calcoli di Gallino tutti i dipendenti delle imprese che non possono far ricorso alla cassa integrazione arriviamo alla conclusione che i precari sono la maggioranza dei lavoratori italiani.
Il problema è che questa definizione estesa di precariato non piace ai politici perché poco si presta agli slogan. E’ più facile dire “cambiamo la legge Biagi” piuttosto che proporre adeguati ammortizzatori sociali per tutti i lavoratori compresi cococo e cocopro in caso di disoccupazione. Oltre a tutto, questo discorso è poco gradito a una parte della sinistra che continua a ignorare l’esigenza di migliorare ed estendere l’indennità di disoccupazione nel timore che questa misura faciliti i licenziamenti. E se anche fosse? Non sarebbe meglio dare alle imprese più libertà di licenziare ma anche di assumere senza troppi vincoli, chiedendo però in cambio di finanziare almeno in parte le riforma degli ammortizzatori sociali così come già oggi finanziano la cassa integrazione?
La riforma dell’indennità di disoccupazione e la sua estensione a tutti i precari è la vera battaglia di rinnovamento che deve essere condotta nel mercato del lavoro italiano. Ma è politicamente difficile, almeno con questa maggioranza. Se persone intelligenti e capaci di mobilitare l’opinione pubblica come Beppe Grillo la sposassero invece di fare battaglie facili e demagogiche, forse qualcosa si potrebbe muovere.

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