Gli scienziati del progetto “Sloan Digital Sky Survey” hanno lanciato un invito agli astronomi dilettanti perché collaborino a esaminare e catalogare il milione di galassie finora conosciute. Requisiti: soltanto un computer, una connessione internet e la disponibilità a lavorare gratis. Si aspettavano un manipolo di volontari, invece sul sito in un solo mese sono state raccolte 85mila adesioni al progetto.Wikinomics, the new system to which everybody contributes freely through internet, puts under discussion some of our basic economic concepts. The gross domestic product (Gdp), for example, is based on the idea of measuring “wealth”. But what is wealth if an important part of the economy develops without payments and without prices?
L’episodio, raccontato da Massimo Gaggi sul Corriere della Sera, è una conferma della forza della nuova economia nata da internet. E’ un nuovo modo di produrre che si basa sulla disponibilità della gente a lavorare in rete, anche senza un immediato tornaconto, solo per il piacere di contribuire alla creazione di un bene o di un servizio utile alla collettività. Appartiene a un fenomeno analogo il nuovo tipo di brevetti “creative commons“, nei quali ogni ricercatore mette in rete il suo prodotto (di solito un software) per consentire agli altri di migliorarlo, purché non ne facciano un uso commerciale. E poi, naturalmente c’è wikipedia, la nuova enciclopedia multilingue nata dal basso, che ha superato ampiamente per dimensione l’Enciclopedia Britannica. Contiene voci discutibili e incomplete, ma è un fenomeno in crescita e, quel che conta, viene usata a torto o a ragione da milioni di persone.
Anche le aziende e i consulenti si interrogano su come sfruttare al meglio questi apporti. Ne parla il nuovo libro Wikinomics, uscito da poco nell’edizione italiana. La presentazione spiega che “nella wikinomics le scelte di collaborazione sono infinite, per esempio:
• ci si può collegare a una comunità internazionale di scienziati per partecipare alla ricerca sul genoma umano
• si possono produrre clip informative per YouTube o sperimentare nuove idee nella comunità di Second Life
• ci si può unire alla divisione virtuale di R&D di aziende come Procter & Gamble e contribuire allo sviluppo di nuovi prodotti
• si può partecipare al design delle funzioni interattive della prossima BMW”.
Per essere coerente con queste premesse, l’edizione inglese del libro di Don Tapscott prevede a sua volta un “wiki” che offre alla gente di commentare e migliorare quanto scritto.
Ma che succede quando questo apporto collettivo alla produzione di ricchezza non sfocia in un bene vendibile (il nuovo prodotto Procter o Bmw, nell’esempio qui sopra) ma solo nel miglioramento della nostra conoscenza o della qualità della vita collettiva? Succede che si mette in discussione la base stessa della scienza economica: la produzione di ricchezza, misurata dal suo valore di mercato. Con implicazioni ancora difficili da valutare. Per esempio, dalla misura di quel che un Paese produce derivano le grandezze di contabilità nazionali, a cominciare dal Prodotto interno lordo (Pil) essenziali per misurare lo stato di salute di una collettività. Se però il concetto stesso di ricchezza prodotta sfuma, come misurare per esempio l’apporto degli astronomi dilettanti di galaxyzoo o il valore di wikipedia, enciclopedia che non retribuisce i suoi collaboratori e non si vende? In contabilità nazionale, beni e servizi contribuiscono al Pil per il loro valore aggiunto, cioè per la somma dei valori delle attività di lavoro e d’impresa che hanno condotto dalla materia prima al prodotto finale, misurato sulla base del suo prezzo. Per i beni e servizi non destinati alla vendita gli statistici si avvalgono di una convenzione: per esempio, le prestazioni della pubblica amministrazione sono misurate sulla base degli stipendi dei dipendenti, anche se si sa che questa misurazione non tiene conto della produttività.
Ma non c’è prezzo e neanche stipendi? Per la verità il problema si era già presentato in precedenza, per esempio nella valutazione del lavoro domestico che è escluso dal calcolo del Pil (dando luogo al ben noto “paradosso della cuoca”: se sposo la mia cuoca e quindi smetto di corrisponderle uno stipendio faccio diminuire il Pil). Ma a parte il caso (ingiusto ma ben noto) delle casalinghe, il confine tra ciò che era e ciò che non era produzione di ricchezza sembrava ben delineato. Sembra invece che internet rimetta tutto in discussione.
Insomma, per il buon vecchio Pil i tempi si fanno sempre più cupi. Cresce la forza di quanto vorrebbero sostituire o quanto meno integrare questa misura con la nuova “economia della felicità”, che vuol misurare il benessere complessivo dei cittadini. Con grandi difficoltà, perché la percezione della felicità è influenzata dalla disponibilità economica, ma è comunque soggettiva e risente anche di diverse “filosofie di vita” che possono rendere apparentemente più felici paesi in condizioni più disagiate, come di recente ci ha ricordato l’Economist. Ma ancor più grave per i concetti base della contabilità nazionale (che sono poi i concetti base che usiamo per valutare il progresso delle nazioni) è questa nuova insidia che nasce dal mutamento delle forme di produzione e dalla indeterminatezza del significato di “bene economico”.
Con un po’ di fantasia, estrapolando l’economia contemporanea che già si basa per due terzi su servizi immateriali, possiamo immaginare un paese di Utopia nel quale i cittadini trascorrono una parte consistente del loro tempo su internet a scambiarsi poesie o altri servizi voluttuari reciproci. Se questi scambi avvengono gratuitamente, gli statistici non li censiranno tra i servizi finali: non fanno crescere il Pil. Ma se i cittadini si scambieranno i loro versi in cambio di un corrispettivo, il Pil crescerà. Via, c’è qualcosa di assurdo in questo sistema, che andava bene per misurare la produzione di tubi e automobili, ma funzionerà sempre meno in futuro. Forse è difficile misurare la felicità, ma nel mondo del virtuale sta diventando maledettamente arduo anche misurare la ricchezza.

2 commenti

  1. Post molto interessante. Credo ci sia un piccolo errore nell’ultima parola. Non volevi dire che nell’era di internet e’ difficile misurare ANCHE la felicita’?

    In ogni caso, se la misura della felicita’ dipende dalla filosofia di vita, forse avrebbe senso chiedersi se non ha piu importanza incentivare (come?) le filosofie che rendono piu’ felici che semplicamente aumentare il pil.

    Let’s roll another :)

    Pietro

  2. No, intendevo proprio che c’è una difficoltà statistica a misurare la produzione di ricchezza nella società post post industriale. Interessante la tua domanda. Intanto diciamo che comunque il benessere è  un preerequisito per la felicità (vedi l’articolo dell’Economist che ho citato). Ma poi il problema è che non si capisce bene che cosa vuol dire che lo Stato debba “incentivare le filosofie che rendono più felici”. Si rischia di cadere nello Stato etico… In fondo anche l’Inquisizione agiva per incentivare la felicità, identificata come il modo per assicurarsi un posto in Paradiso. Ma la mia risposta, lo so, non è esaustiva.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti sul post