In questi mesi ho avuto la soddisfazione di essere invitato a una mezza dozzina di presentazioni e dibattiti stimolati dal mio libro “I numeri della felicità” e ringrazio tutti quelli che se ne sono occupati.

La natura del libro è già stata descritta su questo blog: si tratta del racconto in chiave divulgativa del grande lavoro in corso nel mondo per misurare un benessere che, soprattutto nei Paesi più sviluppati, non può essere testimoniato soltanto dalla misura del prodotto interno lordo (Pil). Come viene recepito questo dibattito nella cultura italiana? Ecco qualche appunto, senza pretesa di organicità.

Felicità e benessere: sono la stessa cosa di happiness e wellbeing? I dubbi già adombrati nel mio libro sono stati rafforzati dal dibattito sulla relazione di Michela Guerini sulle prospettive teoriche dei concetti di felicità e benessere che si è svolto nell’ambito del convegno di Firenze “Qualità della vita, riflessioni, studi e ricerche in Italia”. Gli anglosassoni usano le due parole in modo quasi indifferenziato. Per noi la felicità è più legata a un senso di appagamento momentaneo, mentre il benessere si lega a una soddisfacente situazione economica. Non a caso molti relatori anche a Firenze per parlare di buona qualità della vita usavano il termine “benessere globale”, quasi a distinguerlo dal benessere economico.

La conferma della differenza si ha anche dalle ricerche in corso. A Rotterdam, Ruut Veenhoven ha creato il ricchissimo “database on happiness”, mentre alla London school of economics Richard Layard parla di “Happiness economics”. Invece in Italia l’Istat, a scanso di equivoci, annuncia che intensificherà i suoi studi sul benessere (globale) e non parla mai di felicità.

Felicità e politica. Una precisa definizione del campo d’indagine, senza equivoci lessicali, può sembrare pedante, ma aiuta a sgombrare il campo dagli equivoci. La statistica non pretende di misurare la felicità di un singolo individuo, semmai si avvale della misura del benessere percepito dai singoli e delle sue relazioni con alcune determinanti (situazione economica, salute, famiglia, amicizie, rapporti con l’ambiente e con le istituzioni, per citare le più importanti) per fare il punto sul benessere complessivo di una comunità. Si chiarisce così un equivoco che ha trovato eco anche nel dibattito di Cortina: nessuno desidera che lo Stato mi dica “come” essere felice, perché questo renderebbe reale il “Mondo nuovo” di Huxley, dove i cittadini sono tenuti contenti con sesso e droga. Ma se il benessere complessivo è sempre meno dipendente dalla produzione di maggiore ricchezza (e su questo non ci sono dubbi, nei Paesi che hanno raggiunto un livello adeguato di reddito pro capite) è giusto che la politica debba porsi anche “altri” obiettivi, oltre alla crescita economica. Le statistiche che aiutano a misurare quello che conta davvero per i cittadini possono aiutare a fare scelte politiche migliori.

Diffidenze ed entusiasmi (eccessivi). La scheda che mi ha dedicato la rivista Geo, oltre ai complimenti all’autore (grazie) coglie perfettamente il senso del libro: “il modo migliore per misurare la felicità è guardare il mondo da vari angoli e utilizzare in contemporanea tante misure”. Come prevedevo fin dalla premessa dal mio libro, nel dibattito mi sono trovato di fronte a posizioni preconcette: da una parte gli economisti che consideravano le “misure del benessere” un escamotage per non parlare più del Pil, soprattutto in un’epoca nella quale l’economia dà poche soddisfazioni, dall’altra chi non vedeva l’ora davvero di “rottamare il Pil” per parlar d’altro, ignorando che il modo di produrre ricchezza dovrà cambiare nel tempo, ma che la produzione di nuova ricchezza (e quindi anche la misura di questa produzione) è fondamentale per progredire. Tuttavia, “guardare il mondo da vari angoli” richiede “numeracy”, cioè cultura numerica, perché leggere un cruscotto di indicatori è più difficile che leggere un unico dato. E richiede consenso sui dati davvero importanti, per evitare strumentalizzazioni politiche: un aspetto giustamente sottolineato da Gianfranco Fabi nel suo commento al mio libro sul Sole24Ore.

La difficile misura della sostenibilità. Nel “cruscotto” degli indicatori ci devono essere anche quelli che riguardano la sostenibilità, cioè la capacità di trasmettere intatto alle nuove generazioni il capitale complessivo (economico, ambientale, umano, sociale) su cui si basa il nostro benessere. Attenzione però a evitare le scorciatoie. Come spiega Enrico Giovannini in un’intervista sul mensile East, di prossima pubblicazione, la sostenibilità globale non s’identifica soltanto con la sostenibilità ambientale sulla quale gli indicatori si moltiplicano in un insieme sempre più frastornante. Ci sono gravi interrogativi anche sulla capacità del “sistema” di reggere le tensioni sociali che deriveranno nei prossimi anni dall’aumento demografico, dai cambiamenti climatici, dalle lotte per l’energia, l’acqua, il cibo. La sostenibilità dovrebbe portarci a misurare i rischi cui andiamo incontro. Non basta, cioè, misurare il progresso se non sappiamo dove questo progresso ci porta. Si tratta di un campo relativamente nuovo per l’economia, la sociologia, la statistica. Un campo che è reso fortemente incerto da un lato dal progresso tecnologico che può minimizzare i rischi (per esempio la scoperta della fusione nucleare potrebbe darci acqua dal mare a volontà)  dall’altro dalla possibilità di accelerazione dei fattori negativi, come potrebbe avvenire, per esempio, se il riscaldamento climatico non procedesse in modo lineare ma dovesse subire un’accelerazione o provocare mutamenti globali quali (è solo un’ipotesi avanzata tempo fa da uno studio della Cia) l’annullamento della Corrente del Golfo. Di fronte a quest’ampia gamma di “futuri possibili” è necessario un grande sforzo globale di rilevazione e previsione sistemica sull’evoluzione delle comunità umane. E’ certamente importante sapere quante specie di farfalle rischiano di estinguersi nei prossimi trent’anni, ma è almeno altrettanto importante capire quanti milioni di persone saranno indotte a lasciare le loro terre per via del mutamento del loro ambiente naturale, economico e sociale o dalle tensioni politiche che ne deriveranno.

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