La stampa non ha accolto bene l’ultima indagine dell’Istat sulla soddisfazione dei cittadini per le condizioni di vita: poche righe sui giornali maggiori, un po’ più di spazio sul Giornale che comprensibilmente ha colto alcuni spunti per sottolineare che la gente in Italia non sta poi così male, attenzione, soprattutto sul Messaggero, alla polemica delle associazioni dei consumatori che si sono chieste “in quale remoto Paese l’Istat abbia condotto la sua indagine sulla soddisfazione delle famiglie circa la propria condizione economica”.

Eppure la rilevazione conteneva importanti elementi di novità, come segnalato anche nella premessa del comunicato del 4 novembre: per la prima volta si è voluto rilevare un indice di soddisfazione della vita nel suo complesso (altrove lo si chiama indice di felicità o di benessere, ma in italiano questi termini possono essere fuorvianti, come ho spiegato in precedenza) e lo si è fatto secondo la cosiddetta scala di Cantril, da zero a dieci.  L’innovazione rispecchia il processo di ricerca di nuove misure del progresso avviato dall’Ocse e testimoniato anche dalla commissione Stiglitz.

Finora l’unico dato di soddisfazione globale a disposizione per l’Italia veniva dalla rilevazione che ogni due anni la Gallup compie in circa 150 Paesi. Com’è riportato nel mio libro “I numeri della felicità – dal Pil alla misura del benessere” – Edizioni Cooper l’Italia nell’ultima indagine Gallup si collocava al 36mo posto, con un misero voto di 6,3 che gli italiani nel maggio 2009 avevano attribuito in media alle proprie condizioni di vita. Se prendiamo invece per buona la rilevazione Istat relativa al febbraio 2010, che ci dà una media di voto di 7,2, l’Italia si collocherebbe al 12mo posto, alla pari con Stati Uniti, Nuova Zelanda e Venezuela (non stupitevi: i latinoamericani sono sempre molto in alto in queste classifiche). Il campione interpellato dall’Istat è molto più numeroso di quello della Gallup e quindi la rilevazione è più attendibile. Ma ovviamente le metodologie non sono perfettamente coincidenti: per valutare appieno il senso di quel “7 più” che gli italiani si attribuiscono in base all’Istat bisognerà aspettare di disporre di una serie storica che ci possa dire se quella soddisfazione sale o scende, perché la variazione nel tempo è certamente l’aspetto più significativo.

Nel comunicato diffuso dall’Istat non sono ancora esaminate le correlazioni tra la soddisfazione complessiva e le determinanti del benessere: relazioni familiari e con amici, salute, condizione economica, soddisfazione sul lavoro, uso del tempo libero. Sappiamo cioè quanto gli italiani sono soddisfatti per ciascun fattore, sulla base della vecchia scala a quattro (molto, abbastanza, poco, per niente), ma non sappiamo quanto quello specifico fattore incide sulla soddisfazione complessiva.

Per chi fa politica, quest’ultima è una informazione importante. Se è vero (premessa della commissione Stiglitz) che gli obiettivi dell’azione pubblica nel ventunesimo secolo saranno sempre più quelli di garantire ai cittadini le condizioni del benessere complessivo e non solo la crescita economica, è importante sapere “che cosa conta veramente”. Per esempio, la rilevazione Istat ci dice che in Italia c’è una profonda sfiducia verso il prossimo, ma evidentemente questo elemento, che renderebbe infelice uno scandinavo, incide poco sul nostro cittadino medio che conta invece soprattutto su famiglia e amici.  Aspettiamo dunque l’analisi delle correlazioni. Sarebbe inoltre interessante che l’Istat, con metodologia omogenea, verificasse anche il grado di soddisfazione per la situazione ambientale e il grado di fiducia nelle istituzioni, come suggerito dalla Commissione Stiglitz.

Il documento Istat è anche corredato da un corposo documento metodologico su strategia di campionamento e livello di precisione dei risultati. Si tratta di un testo molto tecnico, che però vuole arrivare anche a esempi concreti: per esempio, ci dice che l’intervallo di confidenza rispetto alle famiglie che in Piemonte considerano la loro situazione peggiorata (219mila) è pari all’incirca al 13 per cento in più o in meno. Non è un piccolo margine d’errore. Per i dati nazionali, basati su stime molto più numerose, il margine è molto più ristretto, ma tale comunque da mettere in dubbio la validità di certi confronti. Penso che l’Istat faccia opera meritoria nel chiarire i limiti delle sue rilevazioni campionarie, anzi dovrebbe farlo sempre in modo più chiaro e comprensibile a tutti, anche perché sarebbe d’esempio ai tanti che diffondono sondaggi poco attendibili. Ma giornalisti e commentatori dovrebbero anche tenerne conto prima di gridare allo scandalo o battere il tamburo perché le famiglie “molto o abbastanza soddisfatte della loro situazione economica” sono passate dal 47 al 48 per cento. Il senso della rilevazione è molto semplice: la crisi, nonostante tutto, non ha ancora inciso sui livelli di vita di una parte consistente della popolazione italiana. Filosofeggiare sull’un per cento di variazione in un anno non serve a nulla, rende solo un cattivo servizio alla cultura statistica.

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