L’enciclopedia Treccani gli dedica dieci righe. Scrive che Ferdinando di Fenizio visse dal 1906 al 1974, che insegnò in varie università e ne elenca le opere. Oggi pochi addetti ai lavori ricordano che il grande merito di questo economista fu di portare Keynes in Italia, divulgandone il pensiero nell’immediato dopoguerra e influenzando profondamente la politica economica di allora per favorire la ricostruzione dopo le distruzioni belliche e il successivo “miracolo economico”.
Alla fine della guerra fece parte della Commissione economica del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, fu amico di Ezio Vanoni, ma non volle mai entrare in politica, preferendo esercitare la sua influenza con gli editoriali sulla Stampa (sempre chiarissimi, in competizione con quelli del suo collega ed amico Libero Lenti sul Corriere) e con la rivista scientifica l’Industria che dirigeva.
Di Fenizio fu anche un grande maestro e molti dei migliori economisti italiani si sono formati alla sua scuola. Tra questi Mario Monti, che lo ha ricordato di recente nell’intervista concessa a Ferruccio Pinotti per Sette: un dialogo che rivela molti aspetti personali del Presidente del Consiglio.
Qual è stato l’incontro che ha mutato il corso delle sue scelte?
«È stato l’incontro, al terzo anno di Bocconi, col professore Ferdinando di Fenizio, un docente di politica economica che ha di colpo acceso il mio interesse nei confronti delle questioni macro-economiche, della gestione del sistema economico anziché delle aziende. Mi ero iscritto alla Bocconi senza una particolare vocazione, forse in parte perché vi aveva studiato mio padre. Al primo e secondo anno davo per scontato che un giorno sarei entrato in un’azienda o in una banca; e che avrei lavorato per tanti anni sotto le istruzioni di un superiore. E invece al terzo anno ho incontrato il professor di Fenizio, uno dei rari keynesiani d’Italia, che mi ha veramente fatto innamorare dei grandi temi dell’economia: come combattere l’inflazione, come creare la crescita. E allora ho deciso di scrivere una tesi in politica economica sulla Comunità Europea e ho fatto uno stage a Bruxelles su quei temi che di fatto avrebbero orientato la mia vita. Di Fenizio era un uomo geniale, forse balzano, ma che di colpo mi ha aperto una prospettiva nuova».
Perché parlo di questo economista? Perché Ferdinando di Fenizio, “Nandino” per la famiglia, era mio suocero. Mi piacerebbe che si tornasse a parlare con qualche indagine storica del suo apporto all’evoluzione della politica economica italiana. Non pretendo di avere questo ruolo e mi limito a una testimonianza personale.
Andò così. All’inizio del 1966 lavoravo alla Esso Standard Italiana come capoufficio stampa e stavo organizzando delle conferenze di economia nelle scuole per conto della società. Di Fenizio era all’apice del suo successo: docente di economia alla Bocconi e alla Statale, presidente del Comitato tecnico scientifico della programmazione nazionale, direttore della programmazione della Montecatini. Adesso sembra un cumulo di cariche eccessivo, ma l’epoca era assai diversa.
Lo contattai per chiedergli un’indicazione su un testo semplice da distribuire ai ragazzi. Consigliò “Capire l’economia” di GLS Shackle. Ma soprattutto mi invitò a pranzo, con grande affabilità e cortesia. Gli piaceva parlare con i giovani (all’epoca avevo 24 anni). Insomma finì che nel 1968 sposai sua figlia Myriam e “Nandino” nel 1970 ebbe la gioia di diventare nonno. Purtroppo morì presto, nel 1974, per una forma di arteriosclerosi precoce che rese i suoi ultimi anni infelici e drammatici, nonostante l’amore e il sostegno che cercò di dargli sua moglie Rina Venturi. Prima di morire scrisse un lucidissimo testamento nel quale chiese che, previo mio consenso, suo nipote Pietro aggiungesse al cognome “Speroni” anche il suo. In questo modo voleva tutelare la continuazione della famiglia di Fenizio. Era una pratica complicata, che richiese un decreto del Presidente della Repubblica, concesso per i suoi grandi meriti nel campo dell’economia. Ecco perché il mio primo figlio si chiama Pietro Speroni di Fenizio. Per completare la cronaca familiare, con Myriam ci separammo nel 1983 e successivamente divorziammo, ma passate le inevitabili burrasche dei primi anni, mantenemmo una salda amicizia fino alla sua morte, avvenuta purtroppo il giorno di Natale dell’anno scorso. Di suo padre Myriam parlava con grande orgoglio, ma non ne nascondeva il carattere autoritario (si era sentita costretta a laurearsi in economia, ma appena lui morì lei cominciò a insegnare ginnastica) e poco sociale. Di Fenizio viveva solo per la famiglia e il suo lavoro, andava a dormire alle nove e si svegliava alle cinque per studiare, non sopportava i presuntuosi e i chiacchieroni. Insomma una persona non facile e forse per questo Monti parla di un carattere “forse balzano”. Del resto raramente i geni si comportano in modo prevedibile.