In questo 2017, il mio impegno maggiore è stato per la direzione del sito dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile. Oltre agli editoriali delle newsletter settimanale, nell’ultimo numero della newsletter mensile (che diffonde approfondimenti sui temi della sostenibilità) ho pubblicato questa riflessione.
Investimenti per restare entro il limite dei due gradi, conseguenze dell’inevitabile adattamento climatico, diverso uso dei materiali scarsi, politiche contro le diseguaglianze: lo sviluppo sostenibile richiederà un grande spostamento di risorse. E di valori.
Riusciamo a immaginarci un mondo davvero sostenibile? Per arrivarci, quanto dovremo modificare la nostra qualità della vita? Se n’è discusso il 1° dicembre in una tavola rotonda al convegno annuale dell’Aiquav, l’Associazione italiana per gli studi sulla qualità della vita, che fa parte dell’ASviS. La discussione è stata aperta dalla presidente dell’Aiquav Filomena Maggino e hanno partecipato Gianfranco Bologna (Wwf), Leonardo Cannavò (Università la Sapienza di Roma), Carolina Facioni (Istat e Italian institute for the future) e Giampaolo Nuvolati (Università Bicocca): un esperto di ambiente, un economista, una futurologa e un sociologo che hanno messo in luce aspetti diversi di un possibile scenario di sostenibilità.
Ho avuto il compito di introdurre il dibattito e mi sembra utile riproporre qui la stessa domanda, che certamente sarà centrale nella scelta delle future politiche. Chi legge questa newsletter è presumibilmente ben consapevole delle sfide poste dallo sviluppo sostenibile. Molti sono impegnati nell’Alleanza per modificare i comportamenti collettivi e le scelte politiche; moltissimi già si sforzano di adeguare i propri consumi individuali alle esigenze della sostenibilità. Nessuno di noi però è in grado di valutare gli effettivi spostamenti di risorse necessari, per esempio, per mantenere il mondo sotto il limite di due gradi di aumento delle temperature medie, per ridurre le diseguaglianze crescenti, per far fronte agli ingenti spostamenti di popolazioni che sono comunque prevedibili da qui al 2050. L’Agenda 2030 è l’unica agenda condivisa da tutti i Paesi del mondo a cui possiamo affidarci per muoverci concretamente verso lo sviluppo sostenibile e per evitare la cosiddetta “tempesta perfetta” che il capo dei consulenti scientifici del governo inglese John Beddington aveva preconizzato entro il 2030 e che forse sta anche accelerando, se guardiamo alla violenza, alle migrazioni di massa e ai fenomeni meteorologici estremi di questi ultimi anni. Ma neppure l’Agenda 2030 è sufficiente per garantire che da qui al 2050 si possa davvero costruire un mondo che non imploda. Occorre un cambio di mentalità, soprattutto nei Paesi industrializzati.
Mi spiego con qualche esempio. Se parliamo di cambiamento climatico, non dobbiamo mai dimenticare che buona parte della battaglia sulla sostenibilità si combatterà nei Paesi in via di sviluppo, che necessariamente devono crescere e quindi consumare più energia. Non a caso il World energy outlook (Weo), la pubblicazione ammiraglia dell’Agenzia internazionale per l’energia, prevede che il consumo di energie fossili (carbone, petrolio, gas) dall’attuale 81% della domanda globale scenderà solo al 75% nel 2040 se tutti i Paesi che hanno sottoscritto l’Accordo di Parigi manterranno gli impegni, aumentando comunque in cifra assoluta dagli 11.150 milioni di tonnellate di equivalente petrolio (Mtoe) del 2016 a 15.204 Mtoe nel 2040. Persino nello scenario più virtuoso e difficile proposto dal Weo, il consumo dei fossili sarebbe comunque pari al 61% del totale, per complessivi 8.541 Mtoe nel 2040.
Questo significa che se anche l’Italia, così come altri Paesi industrializzati, diventasse pienamente virtuosa (e non lo siamo) in termini di risparmio energetico e passaggio alle energie rinnovabili, il grosso della partita continuerebbe a essere giocata nei Paesi del cosiddetto terzo mondo che legittimamente ci rimproverano di aver portato il carico di CO2 nell’atmosfera del Pianeta agli attuali livelli e chiedono aiuti e trasferimenti tecnologici per inquinare di meno.
Ho già ricordato in una precedente newsletter l’inchiesta di copertina dell’Economist, su “Quello che non ti dicono sul cambiamento climatico”. Secondo il giornale inglese, il limite dei due gradi potrà essere rispettato solo se investiremo fortemente nelle nuove tecnologie per riassorbire una parte dell’anidride carbonica che si è accumulata nell’atmosfera. Ma queste sono ancora allo stato embrionale e per raggiungere l’obiettivo sarebbe necessario quadruplicare l’investimento annuale nello sviluppo delle nuove tecnologie energetiche. Difficilmente uno sforzo di questo genere potrebbe essere sostenuto senza un supporto pubblico, magari sotto forma di una “carbon tax” sulle emissioni necessarie per produrre beni e servizi, con un inevitabile aumento dei prezzi per i consumatori.
Attenzione però perché due gradi non sono pochi. Se anche riuscissimo a rimanere in questo limite, dovremo fronteggiare la sfida dell’adattamento agli inevitabili cambiamenti che già questo aumento comporta: i costi indotti dall’intensificarsi dei fenomeni meteorologici estremi, l’aumento del livello dei mari, il rafforzarsi della categoria dei “migranti ambientali” non riconosciuti dagli accordi internazionali ma non più in grado di sopravvivere nelle loro tradizionali terre di insediamento, soprattutto in Africa. In Italia, la bozza di Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici ci dice che la Penisola risentirà più di altre aree europee dell’aumento delle temperature, con conseguenze che comporteranno un aumento degli investimenti per la difesa del territorio.
Passiamo a un altro esempio. In passato ci si preoccupava per the end of oil, la presumibile fine del petrolio, perché le nuove riserve scoperte non riuscivano a tenere il passo con i consumi. Oggi sappiamo che con molta probabilità una parte del greggio resterà sotto terra, magari per essere riservato ai più nobili usi petrolchimici, ma dovremmo invece preoccuparci per the end of everything, il rarefarsi di molti materiali indispensabili per la produzione di beni essenziali per la nostra civiltà. Ci impegniamo, giustamente, sul Goal 1, cioè sull’eliminazione della povertà estrema nel mondo, ma dovremmo anche interrogarci sulla estensione della classe media e sui suoi riflessi sul consumo responsabile (Goal 12). La Banca Mondiale stima attualmente la classe media (cioè quella che guadagna tra i 10 e i 100 dollari al giorno, a seconda dei Paesi) in circa due miliardi di individui. Tra vent’anni saranno cinque miliardi. Tre miliardi di persone in più che legittimamente vorrebbero automobili, frigoriferi, consumi di carne e altro paragonabili ai nostri. Se oggi l’Ecological Footprint ci dice che consumiamo ogni anno un pianeta e mezzo (cioè che ai primi di agosto abbiamo già consumato tutte le risorse prodotte in quell’anno dalla Terra), è evidente che a questo aumento della domanda di beni si potrà far fronte solo consumando tutti di meno, grazie a innovazioni tecnologiche e diversi stili di vita.
Un ultimo esempio, in questo elenco che già pone tanti interrogativi. Il progresso tecnologico accelera: auto che si guidano da sole, smart cities che si autoregolano, applicazioni dell’intelligenza artificiale che sostituiscono l’intelletto umano o lo potenziano, sono ormai all’ordine del giorno e diverranno realtà entro pochi anni. Finora però la tecnologia ha aumentato le diseguaglianze. Secondo l’ultimo Global Wealth Report, l’1% della popolazione detiene oltre la metà della ricchezza mondiale. All’inizio del Millennio ne possedeva il 45,5%. Senza entrare nel merito del dibattito se il saldo della innovazione tecnologica sarà a favore della creazione o della distruzione di posti di lavoro, è facile prevedere grandi sconvolgimenti. Il mercato del lavoro, se non sarà adeguatamente governato, accentuerà le distinzioni tra i detentori dei capitali, delle tecnologie o di particolari capacità creative e tutti gli altri, condannati alla precarietà o nella migliore delle ipotesi a un reddito di sopravvivenza. Questo fenomeno varrà anche in molti campi sui quali si esercita il progresso tecnologico, dalla medicina, dove si accentuerà la differenza nella speranza di vita tra chi può accedere alle nuove cure e chi invece ne è escluso e forse nella stessa natura umana, tra chi riceverà dall’innovazione dei potenziamenti alle proprie capacità e chi invece rifiuterà o comunque non potrà accedere a questi “superpoteri”. Diciamo con convinzione che la sostenibilità sociale si raggiunge soltanto con una minore diseguaglianza tra le persone, ma è difficile raggiungere questo obiettivo senza una sostanziale ridistribuzione delle risorse e senza un grande impegno nella educazione e nella formazione globale. Se non riusciremo a farvi fronte, la “tempesta perfetta” della violenza e dell’integralismo si abbatterà su di noi.
Personalmente, non sono un assertore della “decrescita felice”. I sacrifici mordono, e sarà difficile farli accettare se non c’è la netta percezione del fatto che sono indispensabili, non solo per i posteri ma anche per le attuali generazioni. In ogni caso, servirà anche uno spostamento di valori, cioè la presa di coscienza che il benessere collettivo e la felicità individuale, cioè in ultima analisi la qualità della vita, si possono perseguire anche se avremo a disposizione meno risorse per i nostri consumi individuali.
Da molti anni siamo impegnati nel ricercare una politica che vada beyond Gdp, oltre il Prodotto interno lordo. Enrico Giovannini ne è stato un tenace assertore da quando era all’Ocse e le innovazioni introdotte in Italia, dai parametri del Benessere equo e sostenibile ai dodici indicatori Bes introdotti dalla riforma della legge di bilancio, si devono in larga misura a lui. La scelta di indicatori diversi deve però essere la premessa per una politica diversa, che valorizzi priorità differenti, più in linea con la visione di un mondo sostenibile. Il problema, come è stato sottolineato anche nel dibattito all’Aiquav, è appunto quello di passare dagli studi alla politica, perché nessun partito se la sente di dire: guardate che un contenimento del reddito individuale della classe media e non solo dei più privilegiati è indispensabile, che dobbiamo investire consistentemente di più negli aiuti ai Paesi in via di sviluppo, nella ricerca di tecnologie contro il cambiamento climatico, nella lotta contro la povertà e l’emarginazione, nella difesa dei nostri territori contro gli eventi climatici estremi.
Un discorso politico di questo genere richiederebbe molte cose che in Italia è difficile individuare: fiducia in una classe politica alla quale si dovrebbero attribuire compiti immani, coraggio di dire la verità, cioè che bisogna fare molto più di quello che stiamo facendo adesso per un mondo sostenibile, capacità di convincere e di coinvolgere grandi risorse della società civile. Questa è la nostra sfida. O almeno, questo è il modo in cui io la intendo.
martedì 19 dicembre 2017