Ogni anno sul Monte Gottero, nell’Appennino tra Liguria, Toscana ed Emilia, si ricorda un episodio della guerra partigiana. Col passare del tempo, gli organizzatori hanno deciso di non parlare solo di Resistenza ma di guardare avanti. E così mi hanno invitato per conto dell’ASviS a parlare di sviluppo sostenibile. L’incontro si è svolto domenica 30 luglio, alla presenza di un centinaio di persone, compresi alcuni superstiti di quelle battaglie e dei sindaci dei Comuni vicini al Gòttero. Abbiamo ricordato i Caduti, cantato Bella Ciao, pranzato tutti insieme in un panorama stupendo oltre i mille metri. È stata una bellissima giornata e ho vissuto un’esperienza straordinaria. Ecco il testo del mio intervento.

Vi ringrazio di questo invito. Per me è una grande emozione essere qui e parlare nel solco di una tradizione ideale così importante per la nostra Storia e per il nostro Paese.

Sono nato nel 1942. Della guerra ho pochi ricordi. Mia madre che mi portava in un rifugio durante un bombardamento a Milano, mio padre chi arrivava pallido in bicicletta nel paese dove eravamo sfollati vicino a Varese perché era stato mitragliato.

Ricordo gli anni del primo dopoguerra e le difficoltà, il ritorno a Milano e la iniziale coabitazione, ma se guardo ai miei tre quarti di secolo sono convinto di appartenere a una generazione fortunata. Abbiamo vissuto in pace, abbiamo goduto di un crescente benessere, anche se non sempre equamente diviso. Personalmente, ho fatto per più di cinquant’anni un lavoro che mi piace, quello del giornalista. I miei figli mi hanno dato soddisfazioni e non devo preoccuparmi per loro. Ringrazio Dio per tutto questo.

Se però guardiamo al quadro generale, qualcosa è cambiato dall’inizio di questo millennio. Proprio nel 2000 il Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen pubblica il libro “Benvenuti nell’Antropocene”. I testi di scuola ci dicevano che da circa 12.000 anni vivevamo in un’era geologica chiamata Olocene nella quale, sfruttando senza limiti la natura, l’umanità aveva sviluppato le sue civiltà, con alti e bassi, ma sostanzialmente come ospite di un pianeta generoso di risorse per la nostra crescita.

Nell’Antropocene la prospettiva si è rovesciata. È l’uomo a determinare i fattori di evoluzione dell’intero pianeta ed è quindi l’uomo a doversi assumere la responsabilità globale di gestire il Mondo.

Cambia dunque la morale, e di conseguenza dovrebbe cambiare la prospettiva politica. In questi primi anni 2000 assistiamo anche anche a grandi progressi tecnologici. Nessuno 30 anni fa immaginava la rivoluzione portata da internet alla nostra intelligenza collettiva, nel bene e nel male.

Ma attenzione. Nello stesso tempo assistiamo al decadimento di quella che si chiama la governance internazionale cioè degli elementi di governo globale. La finanza sfugge a qualsiasi controllo ed è la finanza a provocare la crisi del 2008. La globalizzazione accelerata fa uscire dalla fame centinaia di milioni di persone, ma crea precarietà e decadimento delle classi medie dei Paesi già sviluppati.

Nel 2009, il capo dei consulenti scientifici del governo inglese John Beddington presenta un Rapporto che dice in sostanza: guardate che in mancanza di una capacità complessiva di governare i processi demografici, economici, ambientali e sociali, il mondo andrà incontro una crisi senza precedenti entro il 2030. Sarà la “Tempesta perfetta”. Mancheranno cibo, acqua, energia per tutti e la civiltà ne uscirà sconvolta.

Il Population Institute di Washington raccoglie questo allarme e lo trasforma in un opuscolo destinato alle scuole americane perché è giusto che siano i giovani innanzitutto a discutere il futuro.

In Italia di tutto questo all’epoca non si parlava molto. E così nel 2012 con il collega giornalista Gianluca Comin pubblichiamo per Rizzoli “2030 la tempesta perfetta, come sopravvivere alla grande crisi”. Un libro che non è soltanto una denuncia dei rischi, ma cerca anche di individuare le possibili risposte.

Il volume viene accolto con interesse, ci invitano a una ventina di dibattiti, ci ascoltano con attenzione. Però siamo un po’ considerati come dei marziani che parlano di temi abbastanza sorprendenti e lontani dalla sensibilità comune. E forse dalla realtà.

Da allora sono passati cinque anni e sono successe molte cose. La prima è che la crisi si è accelerata, ben prima del 2030. È precipitata la crisi ambientale con l’intensificarsi dei fenomeni climatici estremi e delle variazioni di temperatura. Si è accelerata la crisi sociale con la messa in moto di grandi migrazioni e l’accentuarsi delle disuguaglianze non solo fra nazioni ricche e povere, ma anche all’interno di ciascun Paese.

Si sono moltiplicate le crisi politiche e militari con numerosi conflitti, quelli che Papa Francesco definisce “Terza guerra mondale a pezzi”.

Al tempo stesso però sono anche cresciute le risposte. È cresciuta la sensibilità sul fatto che il mondo deve mettersi su un percorso di sviluppo diverso rispetto a quello che abbiamo conosciuto finora: un percorso che non danneggi il futuro del Pianeta e le prossime generazioni.

Nel 2000 l’Onu si era dato degli Obiettivi globali al 2015, i Millennium development goals, che avevano funzionato solo in parte. Verso il 2013 comincia il processo per sostituire questi obiettivi con altri che devono andare del 2016 al 2030. Si apre una grande discussione mondiale per definire la cosiddetta Agenda 2030, cioè i traguardi a cui l’umanità dovrebbe arrivare tra 15 anni.

Nascono così gli Obiettivi di sviluppo sostenibile, in inglese Sustainable development goals, SDGs. Ma attenzione: a differenza del passato, questi obiettivi non valgono solo per i Paesi in via di sviluppo ma anche per noi, perché siamo tutti paesi in via di sviluppo sostenibile.

Inoltre, a differenza del passato, questi obiettivi vengono preparati con consultazioni nazionali e internazionali alle quali partecipa in varie forme la società civile.

Questo grande processo va avanti per mesi e mesi fino ad arrivare nel settembre del 2015 all’approvazione dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile sottoscritti da tutti i Paesi che fanno parte dell’Onu.

Ve li elenco velocemente.

  1. Sconfiggere la povertà
  2. Sconfiggere la fame
  3. Salute e benessere per tutti
  4. Istruzione di qualità
  5. Parità di genere
  6. Acqua pulita e servizi igienico-sanitari
  7. Energia pulita e accessibile
  8. Buona occupazione e crescita economica
  9. Innovazione e infrastrutture adeguate
  10. Ridurre le disuguaglianze
  11. Consumo responsabile
  12. Lotta al cambiamento climatico
  13. Salvaguardia della flora e della fauna acquatica
  14. Salvaguardia della flora della fauna terrestre
  15. Pace giustizia e istituzioni solide
  16. Partnership fra tutte le nazioni per raggiungere questi obiettivi

Ragazzi, che utopia! Se pensiamo a tutti i fallimenti dell’Onu, ha senso chiedersi che senso ha l’enunciazione di queste buone intenzioni.

Attenzione però: questi obiettivi sono stati sottoscritti da tutti i Paesi che si sono impegnati a farsi verificare la loro realizzazione e la seconda verifica annuale è avvenuta proprio questo mese a New York. È un processo faticoso, ma è in moto. E, fatemi aggiungere, meno male che c’è, perché non vedo molte altre speranze.

Inoltre, non ci sono solo queste 17 proclamazioni utopistiche, ma per ciascun Goal, per ciascun obiettivo, ci sono dei target, dei traguardi specifici, 169 in tutto, e degli indicatori concordati in sede internazionale per misurarne il raggiungimento. A questo stanno lavorando gli statistici di tutto il mondo.

Vi faccio un esempio. Il Goal 1 “Sconfiggere la povertà” si declina in un target 1.1 che impegna a far sparire la condizione di quelli che guadagnano meno di 1 dollaro e 90 al giorno quindi diciamo poco più di un euro e mezzo. Questo è un obiettivo possibile per il 2030, ci dicono gli esperti. Però è un obiettivo che non ci riguarda se non come cooperazione verso gli altri paesi. Ma c’è anche il target 1.2 che ci impegna a dimezzare la povertà calcolata secondo gli standard nazionali. Quindi l’Italia entro il 2030 si è impegnata portare il numero delle persone in povertà assoluta, cioè di quelli che non si possono permettere un paniere di beni e servizi essenziali, da 4,6 milioni di persone a 2,3 milioni. Questo è un grosso impegno concreto per il nostro Paese.

Potremmo andare avanti con altri esempi di questo genere, ma a questo punto io vorrei dirvi che cosa stiamo facendo. Io sono qui a parlarvi in rappresentanza di un’organizzazione che si chiama Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile: ASviS. Trovate tutte le informazioni sul sito. L’ASviS è stata fondata dall’economista Enrico Giovannini, ex presidente dell’Istat. La sua intuizione, forte anche dell’esperienza di ministro del lavoro durante il governo Letta, è stata che bisognava mettere insieme tutte le associazioni che in qualche modo erano impegnate in Italia su uno dei 17 obiettivi che vi ho appena elencato. È nata così un anno e mezzo fa questa alleanza che va dalla Cgil alla Confindustria, dal WWF a Save the Children, dall’Anci, l’Associazione dei comuni italiani, all’Azione cattolica, e mi scuso per non averne citato tante altre, ma in totale sono diventate oltre 170 e quindi non posso citarle tutte.

Voi potreste dirmi: a che cosa serve questo gran calderone? Come vi dicevo, ogni associazione è impegnata su almeno uno degli obiettivi, che si tratti di lotta alla povertà o di parità di genere, di una agricoltura migliore o di difesa del territorio. In realtà tra i diversi obiettivi ci sono molte interazioni. Insieme possiamo scambiare le migliori pratiche e anche fare delle lotte comuni. A fine maggio, per 17 giorni, abbiamo lanciato in tutta Italia il Festival dello sviluppo sostenibile: i nostri aderenti hanno organizzato più di 200 eventi, dai convegni agli incontri nelle scuole, dai film alle visite guidate, per segnalare la necessità di cambiare passo e di dare priorità nelle scelte politiche agli obiettivi per un futuro di sostenibilità ambientale e sociale.

Veniamo così alla parte conclusiva del mio intervento: cerchiamo di dare concretezza allo slogan “sviluppo sostenibile”. Se ne parla sempre di più, ma che cosa significa in termini politici? È chiaro che L’Alleanza non è non vuole essere un partito, ma l’Asvis fa politica: propone soluzioni che dovrebbero influenzare l’elaborazione programmatica da parte dei partiti che si preparano alle elezioni e chiama i partiti e i movimenti a confrontarsi su queste proposte.

Siamo convinti che, se vogliamo raggiugere gli obiettivi italiani al 2030, la prossima legislatura sarà determinante. La domanda di fondo ovviamente è quali devono essere le priorità , quali le scelte politiche, sapendo che non sempre possono essere priorità popolari, condivise nei sondaggi, anche perché non sempre le persone sono informate in modo adeguato e non sempre le ricette per la sostenibilità sono tali da dare un ritorno elettorale nell’arco di un quinquennio.

Finora abbiamo ottenuto un primo risultato importante: far passare il concetto che lo sviluppo sostenibile non si traduce soltanto in una economia che rispetti l’ambiente, e già sarebbe molto, ma in un sistema più giusto, che non lasci indietro nessuno, che guardi a tutti gli aspetti del benessere collettivo. Esiste una legge che obbliga l’Italia a formulare un Programma nazionale di sviluppo sostenibile, che quest’anno è stato presentato per la prima volta dal governo. Finora il compito di occuparsi di sviluppo sostenibile era affidato al ministero dell’ambiente, che ha fatto anche delle cose buone ma aveva inevitabilmente una visione limitata. Col varo dei nuovi obiettivi dell’Onu, che hanno una portata così ampia, L’Ambiente ha dovuto confrontarsi con tutti gli altri ministeri per elaborare questa prima strategia. Ora però, Gentiloni ha annunciato che la gestione complessiva delle politiche di sviluppo sostenibile sarà assunta dal presidente del consiglio ed è giusto che sia così perché si tratta di un impegno trasversale che riguarda tutto il governo.

Nella piattaforma che stiamo elaborando si parla di inclusione sociale, di parità di genere, di sanità ,di istruzione oltre che di ambiente. Ovviamente la difesa del territorio assume un’importanza primaria, così come la costruzione di infrastrutture adeguate per adattarci a quella parte di cambiamenti climatici che comunque non si potranno evitare. Ma parliamo anche di mitigazione del clima, cioè anche della accelerazione del passaggio alle energie rinnovabili e della lotta agli sprechi.

Non è facile impegnare i partiti al di là degli slogan. Vi faccio un esempio. Il ministero dell’ambiente ha fatto un lavoro benemerito quest’anno con un rapporto che elenca di tutti gli incentivi erogati dallo stato che sono dannosi per l’ambiente. Questi incentivi ammontano a 16 miliardi all’anno. Spostare questi incentivi verso energie pulite e ristrutturazioni ecocompatibili e e difesa del territorio sarebbe un grande passo avanti, ma è inutile fare della demagogia: in questi incentivi ci sono anche quelli per l’autotrasporto e ci è stato fatto presente che se vengono tolti da un giorno all’altro si ferma il Paese.

Insomma ogni scelta va fatta con gradualità, ma anche con una visione e una strategia di lungo termine.

Il futuro che ci sta capitando addosso è fatto di sfide difficili, ma anche di tecnologie incredibili che porranno problemi nuovi. Non vi sto parlando di fantascienza: grandi città collegate da metropolitane a velocità supersonica sposteranno il potere dagli stati nazionali a queste supermetropoli. Tutti i cittadini collegati a internet già oggi possono dire la loro, influenzando i rappresentanti politici. Insomma cambia la politica, ma non abbiamo ricette per far funzionare una democrazia diversa da quella degli ultimi duecento anni.

I robot e l’intelligenza artificiale sostituiranno molti lavori umani, ma non abbiamo ancora una strategia per garantire non solo il reddito ma anche la dignità e la partecipazione sociale che solo il lavoro garantisce a tutti i cittadini.

Da un lato c’è chi si impegna per creare superuomini con facoltà potenziate dagli innesti con le macchine, e una speranza di vita molto allungata rispetto a oggi grazie ai ricambi artificiali, ma nel frattempo dobbiamo pensare a come risolvere il problema di centinaia di milioni di persone che nei prossimi decenni abbandoneranno le loro terre, soprattutto in Africa, perché il cambiamento climatico ormai in parte irreversibile le ha rese inospitali. Problemi spaventosi che nascondiamo sotto il tappeto.

Noi non pretendiamo di avere le ricette per tutto, ma vorremmo che si discutesse dei delle questioni fondamentali, determinanti per il nostro futuro, e che lo si facesse partendo dai fatti e con proposte di lungo periodo e non con slogan. Nell’Alleanza ci sono una ventina di gruppi di lavoro, uno per Goal più altri trasversali, nel quale gli esperti delle diverse associazioni si confrontano per cercare, magari con fatica e nel dissenso, delle soluzioni comuni.

Cari compagni, consentitemi di usare questa parola che ho usato poco nella mia vita perché io ero un giovane repubblicano ai tempi di Ugo la Malfa e noi ci chiamavamo amici, questa battaglia dello sviluppo sostenibile è una sfida difficilissima da vincere e ci affratella tutti. È una sfida che si vince dal basso perché non è pensabile che i governi da soli si muovano se non c’è una formidabile spinta da parte degli elettori che devono prendere consapevolezza del fatto che qui stiamo giocando con il fuoco (è proprio il caso di dirlo in questi giorni, oltre alla mancanza d’acqua). Stiamo davvero scegliendo il futuro, ma questo è anche un grande ideale e tutti voi, impegnati nella difesa del vostro territorio, siete un tassello di questo grande impegno. Non vi faremo certo mancare il nostro supporto. Grazie ancora per questo incontro.

1 commento

  1. Grazie, bel discorso, che leggo con un po’ di ritardo, ma è sempre valido. E’ importante espandere il più possibile questa consapevolezza. Ricordo di aver affrontato questi temi nei primi anni Settanta, grazie a un professore di università illuminato, Lucio Gambi, e a un libro preveggente, Il cerchio da chiudere, di Barry Commoner, attualissimo ancora adesso. Anzi paradossalmente più attuale, e che ci fa ricordare che, anche se prendessimo provvedimenti oggi, avremmo già perso quarant’anni. Commoner e Gambi mi hanno fatto cambiare idee sulle priorità, e da allora ho studiato, insegnato e scritto di geografia, disciplina che tiene insieme tutto il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro.
    Ti segnalo solo una cosa: nell’elenco degli obiettivi hai saltato l’obiettivo 11, quello sulle città.

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